- Ehi, Carta, ci vieni al capodanno al palazzetto?
- Bah, non saprei, quanto viene?
- 30 euro
- Porca puttana, l'hanno scorso erano 20!
- C'è crisi...
- Appunto! Quanto cazzo deve pagare una povera anima per potersi ubriacare fino a dimenticarsi il proprio nome?
- Beh, c'è pure parecchia figa...
- Fatta!
E così che è iniziata l'Odissea, se non ricordo male.
Ma più che Ulisse, mi sentivo tanto uno alla disperata ricerca di una dose.
Che svarione, fratello!
- Ciao, hai ancora delle prevendite? No, le hai finite cinque minuti fa? Vabbè, fa lo stesso...
- Tu! Vendi mica prevendite come l'hanno scorso? Ti sei intascato i soldi e per questo se ti vedono gli organizzatori ti ammazzano? Capita, sarà per un'altra volta...
- Ehi, ciao, come va? Senti c'hai mica un paio di prevendite che ti avanzano? Ho qui i soldi pronti, controlla ci sono tutti!
- Dai cazzo, almeno tu, me ne basta una, si fottano gli altri! Se poi ti vedo alla festa, ti offro da bere! Sì, lo so, è gratis, ma è il gesto che conta!
- Ne hai una? L'hai già venduta? Dalla a me, ti dico dov'è il tizio che vi ha inculato i soldi l'hanno scorso!
Fino a scadere nel patetico.
Peggio, nel Western: si scopre che il mio vicino di banco, che ha seguito me e gli altri due disgraziati nella disperata ricerca, aveva uno di quei cazzo di biglietti che avanzava.
Una fa:
- Io me ne vado, sei uno stronzo.
L'altro:
- Ce la giochiamo a carte?
Io:
- Perché, dato che bari? Finiamola qua e subito!
L'altro ( ma sempre lo stesso di prima), dopo aver sputato una presa di tabacco:
- Ci sto!
Menzogna: è stato epico.
Verità: Nel tentativo di arraffare per primi il foglio, ci siamo scontrati come in un film di Stanlio e Ollio.
Mentre doloranti tentavamo di rimetterci in piedi, la terza è tornata, ha preso il biglietto, ha pagato il mio amico, il tutto senza mai smettere di imprecare.
Devo dargliene atto, ottimi polmoni.
Quindi sono qui ad organizzare la mia vendetta.
L'ora X scatta alle 21.00 di venerdì 30 Dicembre, si accettano consigli, no perditempo.
Tutt'al più, cercherò Cerex in quei di Andalo e vedremo chi dei due è più bravo a mandare in galera l'altro...
Lo ammetto: sono spesso distratto durante storia dell'arte.
Mi perdo parlando del più o del meno.
Mi perdo sfogliando il libro e guardando gli autori che non faremo mai, per mancanza di tempo e buona volontà.
Mi dispiace un po' per Rembrandt e quel suo Aristotele, per Giambattista Tiepolo e per il suo stile che mi ricorda qualcosa, un qualcosa che non riesco ad inquadrare bene.
Mi perdo disegnando cose sul banco, a confrontarle con quelle che ha disegnato il mio vicino, che spesso e volentieri scrive e disegna sul mio, per timore delle lamentele dei bidelli.
Delle volte capita che ne venga fuori qualcosa di bello,
come la foresta fossile di cui avevo parlato alla blogger schizofrenica per eccellenza,
ma le più tante volte ne esce roba del genere.
Io lo lascio fare, sia perché questo mio amico è davvero bravo, ma la sua indole abbastanza da cagasotto ( che poi non capisco, non è una persona timida, ma di fronte a cose minime, un rimprovero di un bidello, chiedere qualcosa ad una segretaria, scappa come un bambino impaurito) lo bloccherebbe, sia perché mi diverto a commentare cosa fa, ad aggiungere qualcosa, a cancellare, a criticare la sua completa incapacità a dare una traccia di tridimensionalità alle sue opere, nonostante l'uso smodato delle ombre.
Delle volte scrivo cose sul block notes, cose che potrebbero essere post, ma che non lo saranno mai, non solo perché spesso e volentieri le perdo.
Mi prendo parecchie note per questo, anche se nel caos che genero in quel metro quadrato filtra sempre qualcosa e alla fine ho sempre un'ottima media in questa materia, aprendo raramente il libro di testo con l'intenzione di studiare, senza mai prendere un appunto.
Boh.
Ecco, se avessi lei come compagna di banco, non disegnerei.
Ma, probabilmente, non cambierebbe il mio livello di attenzione alle lezioni...
Tre giorni fa ho suonato per la prima volta davanti ad un pubblico.
Una sola canzone, Lonely Day dei System Of A Down.
Io suonavo la chitarra elettrica, una parte d'accompagnamento, una di quelle che se non vengono fatte si nota, ma che se si fanno non la sente nessuno.
Le prove erano andate molto bene, ma nel complesso non abbiamo suonato molto bene.
O almeno così diciamo io e gli altri te del gruppo.
Perché i duecento presenti hanno risposto bene, molto bene, fin troppo bene.
Ok, niente lanci di biancheria intima sul palco, ma forse ha pesato l'età media degli ascoltatori, che forse avevano passato un brutto quarto d'ora ai tempi di Woodstock e non volevano ripeterne l'esperienza.
Ma le persone che non sono in quella cerchia ristretta e momentanea formata da chi sta suonando, non si accorgono di cosa succede.
Tu, invece, che hai provato così tante volte da diventare tu stesso incarnazione della canzone, ti accorgi di ogni imperfezione, di ogni piccolo difetto, di ogni corda suonata troppo forte, di ogni anticipo, di ogni accento non abbastanza accentuato e ti accorgi che quel mucchio d'argilla non diventerà mai la persona da cui hai tratto le sembianze.
Ma alla gente piacciono anche le statue, te ne fai una ragione, e anche se l'amaro in bocca di aver perso l'occasione di fare meglio un po' resta, ti rassegni all'idea che sei piaciuto.
L'ho vista un'altra volta, per cui taglierò corto, non vorrei diventare ripetitivo e continuare ad inzuppare questo blog di lagne, di mie divagazioni su quanto cazzo avrei voluto stringerla io come faceva lui ieri sera, di quanto cazzo non riesca a capire se mi fa più fastidio o felice parlarle, di quanto cazzo non riesca comunque a staccarmi da lei, per un motivo o per l'altro.
Porca puttana, ormai questa storia l'ho superata, sapevo già da tempo la situazione, la solidità della stessa.
Ma è inutile negare che mi ha fatto male vederla con i miei occhi.
È inutile come il falso sorriso che ho messo su quando sono stato presentato al fortunato bastardo.
È inutile come le battute che ho buttato giù, per dimostrare che sono "quello simpatico", come lei mi aveva dipinto.
È inutile come me ora che ragiono sul perché lei finisca per parlare di me a tutti, anche a chi, considerati i nostri trascorsi, non le converrebbe parlarne, quando so già che la risposta è semplice: lei parla di tutto a tutti, anche per questo la amavo, perché era logorroica quasi quanto me.
Se dovessi ringraziare tre persone per la loro generosità nei miei confronti, sarebbero: Omar, Balu e Oriano.
Li accomuna l'avermi dato una sigaretta in un momento in cui ne avevo proprio bisogno.
Di Omar ho già parlato, Balu ( della quale, sto provando a ricordare il nome, forse è Valentina; sì, sono un fottuto ingrato) che me ne ha offerta una fatta con le sue mani dopo il concerto, insieme a complimenti immeritati, Oriano mi ha chiesto se volevo fare un paio di tiri di una cosa anch'essa fatta artigianalmente ieri sera, quando mi lo ho incontrato di ritorno da una copiosa pisciata da birra.
Distaccarsi da una droga come le sigarette per darla a qualcuno senza chiedere niente in cambio, senza che ti venga chiesto, solo perché ti sembra che gli serva, per me è un gran bel gesto.
La prova è che se cercate su Google "dare una sigaretta ad un amico",
Non ho idea di quanto ci metterò a finire le "Lettere da Nowhere City", ma credo che prima gennaio la prossima non uscirà.
Non c'entra il Natale, beh non direttamente.
È che questo è il periodo in cui ritrovo la maggior parte di quella dozzina di anime amiche e si ha tempo di qualcosa di più di un saluto andando a lezione.
Boh, magari mi tiro fuori un buco il ventitré, non prometto niente.
Scopro solo ora che ventitré si scrive con l'accento, lasciatemi un po' di tempo per metabolizzare.
Eppure ci fu un tempo.
L'odore del sangue mi disgusta tutt'ora.
Eppure ci fu un tempo.
Sento distintamente la rotula pulsare, non è dolore, ma calore piuttosto.
Eppure ci fu un tempo.
In cui non lo avrei sopportato.
Il bisturi incide la mia pelle, porta alla luce le mie viscere, ammasso putrido di carne, poetico ingranaggio della macchina perfetta.
E se la coscienza fosse il mio male?
No, questo mai.
Anche se sfama la mia ipocondria, mi rafforza.
Perché non mi uccide.
Ecco ora la gabbia toracica, la spaccano con le cesoie.
Quanti possono dire d'aver assistito alla propria autopsia?
La zampa di coniglio è ancora nella tasca della giacca.
Eppure questa è un'altra storia.
Qui io muoio, lì scappavo.
Si tratta forse di un flashforward?
No, all'autore non piacciono molto questo genere di cose, non usate in questo modo.
Forse è solo uno dei racconti possibili questo: non dovevi forse parlare di una foresta pietrificata, non lo dicesti forse?
Cosa mi è successo?
Le uniche cose, le uniche parole: Assenza, Danno, Ginocchio, Pietra, Spirito, Tronco.
Null'altro alberga nella mia mente.
Mi tagliano.
Ora noto l'assenza del mio tronco.
Non mi mancherà particolarmente: era debole ed imperfetto.
Ma funzionale allo stesso tempo.
Separano le mie membra.
Braccio destro a destra.
Braccio sinistra a sinistra.
Potrebbe essere altrimenti?
Forse dovrei smettere di scrivere.
Almeno di scrivere così.
Lo spirito del racconto ne risente, se è duro, freddo e inumano come la pietra.
Ultimamente ho pensieri bui.
Rileggendo questa frase, mi accorgo di una cosa: non vuol dire un cazzo.
Cosa penserebbero i posteriori se dovessero leggere un mio testo?
Ama tropo la paratassi.
Se scrivessi un libro, non sarebbe più lungo di tre pagine.
E lo dico a ragion veduta: se sforo il limite mi perdo.
Non oltrepasso solo le colonne d'Ercole, non mi accontento di una visione di sfuggita della montagna del Purgatorio.
Prendo quell'attimo prima della rovina e lo divido per due, per due, per due, ancora una volta, again, otra vez, mehr ein mal, pour une fois plus, plis.
La freccia si congela in aria, ma io mi perdo ad osservarne la fattura invece di approfittarne e scansarla.
E già inizio a perdermi ora.
Ora il ginocchio inizia a farmi male, anche se è staccato dal resto del corpo, insieme al resto della gamba galleggia nella formaldeide.
Come diceva il tizio delle carte?
Non c'è trucco, non c'è danno...
No, aspetta, inganno.
Eppure c'era: non c'era invece nessuna donna di cuori, come non c'era nessuna carta, nessuna bancarella, nessun marciapiede, nessuna città, nessuna crosta terrestre, nessun nucleo, nessun pianeta, nessun Sistema Solare, nessuna galassia.
Nessun uomo.
Solo energia.
"Tutta la materia è solamente energia condensata a una lenta vibrazione. Siamo tuttiun’unica coscienzala quale ha esperienza di sé soggettivamente, non ci sono cose come la morte, la vita è solo un sogno e noi siamo il frutto della nostra stessa immaginazione."
Diceva Bill Hicks.
Ora non lo dice più.
Non perché abbia cambiato idea, ma perché gli manca da un po' di tempo il fiato.
E no, non per le sigarette.
Mi sembrava di stare diventando troppo serio, un po' come quei russi, i quali sembra non ridano mai.
Con una differenza sostanziale: il mio "Guerra e Pace" durerà solo tre pagine.
Ma, visto il qui sopra scritto, ispirato a quella volta in cui ho messo il piede su di un appiglio friabile, dovendo superare un macigno il quale bloccava il sentiero, e mi sono sbucciato un ginocchio cadendo, forse il risultato sarà abbastanza folle da piacermi.
Premessa: dovevo scrivere un post, non ho avuto tempo.
Siccome il tempo continua a mancare, subappalto questo incipit a voi :-)
Domenica ripasso, raccolgo i frutti del vostro lavoro (Muhahahahaha, latifondismo!) e posto la vera storia.
Le linee che tracciamo.
Cammino per la strada.
Fumo e vapore acque escono dalla mia bocca.
In verità non cammino, corro, ho il fiatone.
Sono un tipo sfortunato.
Volete una prova?
Beh, in questo momento sto cadendo al suolo.
Al tizio che mi ha steso devo dei soldi.
Molti soldi.
Lui è un idiota, quando urlo "Attento, dietro di te" si volta e mi offre la chance di darmela a gambe.
Credevo che queste stronzate funzionassero solo nei film.
Sto ancora gongolando quando, cinque passi dopo, mi schianto contro qualcosa della consistenza di una montagna.
È la compagna dello strozzino.
A meno che Samantha non si sia già operata: a quel punto sarebbe il suo compagno.
Mi alza per il collo, che stringe con una sola mano.
-Ciao Samantha!
- Ora mi chiamo Sam
- Ciao Sam, mi potresti rimettere a terra, soffro di vertigini...
Con lei\lui non attacca, c'è un cervello dietro a quella erculea massa muscolare.
John ci raggiunge.
- Scusa Sam, sai che è furbo!
- No, sei tu che sei idiota, John...
- Dacci la zampa di coniglio!
Dicono all'unisono, in un miscuglio inquietante di voci.
Arranchi e ti dici che mancano ancora pochi paragrafi la fine è vicina.
Guardi fuori e nevica.
Guardi il libro che leggi, pure qui nevica.
Guardi dentro te stesso, fa freddino pure lì.
Vai in dispensa, non cerchi niente di particolare, una qualsiasi cosa che tu possa sgranocchiare mentre finisci queste due, no, tre pagine.
Senti il cane abbaiare, cambi idea.
Metti il segnalibro, indossi una giacca pesante, prendi il guinzaglio.
Fuori fa caldo, più di quanto ti aspettavi.
Mentre tenti di agganciare il collare, l'animale si agita, salta a destra e a manca, sa che si va a fare un giro.
Finalmente.
La neve ti cade sui capelli, ne senti il peso, ma non metti il cappuccio, non ancora.
Quel contatto ti piace, i capelli lunghi sono come piste dove gocce d'acqua sfrecciano per compiacere la gravità.
Tiri un respiro, ma hai le vie aeree congestionate dal raffreddore, non senti alcun odore.
Forse un profumo leggero di aghi di pino, ma potresti essertelo immaginato.
Il cane inizia a tirare, sa già la strada.
Il laghetto è lo stesso di sempre: calmo, isolato, circondato da conifere silenti, che scrutano te e il quadrupede.
Delle volte sussurrano.
Soprattutto quando non prendi le tue medicine.
Per un po' le abbandoni, queste statue plasmate dai secoli, vai a scrutare il panorama da una collinetta.
La valle si staglia di fronte a te, è bellissima, coperta com'è da un manto bianco.
Vedi delle linee di fumo, qualcuno a deciso di accendere un fuoco.
Potresti raggiungerle, non sono lontane.
Il cane ti guarda, seduto aspetta un tuo ordine, una tua decisione.
Tu gli doni la libertà, anche se solo per un po'.
Non si lascia scappare l'opportunità, corre, insegue tracce di lepri, ti chiedi se lo faccia seriamente o per sfizio.
Alzi le spalle ed espiri.
Il vapore acqueo esce compatto, le temperature sono più basse di quanto credessi.
-Forse oggi è un buon giorno...
Dici al vento, il quale ascolta senza commentare.
Scendi dal colle e torni al lago, ti inginocchi, ne tocchi la superficie.
I polpastrelli restituiscono una vasta gamma di informazioni al cervello.
Lui le elabora e le riordina.
Buon ghiaccio, solido, freddo, liscio, scivoloso, butterato in alcuni punti.
Ti chiedi fra te e te come una lastra d'acqua congelata possa essere butterata.
Alzi gli occhi e vedi una donna che pattina, traccia le linee che alle tue dita erano sembrate cicatrici.
Tu ne rechi una in fronte, quindi sai come sono fatte.
Quelle sono tutt'altro: pennellate di un'artista, incisioni di uno scultore.
Lei si accorge di te, ti sorride, poi si avvia a riva, si siede su di una panchina di legno.
Come te non si cura del freddo, scalza se ne va, con le lame delle calzature, che tiene appoggiate sulla schiena, che battono tra di loro.
Vorresti raggiungerla ed inizi a muoverti.
Sei sul lago ora, ma non te ne accorgi ancora.
Continua a camminare, non badare agli alberi, al cane, al vento, alle medicine, al rumore del ghiaccio che si crepa.
Insegui quella figura, ora nel tuo mondo ci sono solo la sua chioma rossa e il tintinnare dei ferri che si porta dietro.
Poi ti fermi, è scomparsa.
E allora tutto ti assale, la mente si riempie di informazioni.
Ti ricordi?
Sono tutte quelle che avevi ignorato, le secondarie.
Ma ora che la primaria non c'è più si contendono uno spazio nella tua mente.
Il cane, dov'è il cane?
Che freddo ai piedi!
Le ho prese le medicine?
Cosa dicono gli alberi, non riesco a sentirli, qualcosa copre la loro voce...
Sei tu vento?
Ma che sto dicendo, sto impazzendo?
Cos'è questo rumore assordante, è vero tutto ciò?
Oh mio dio, il ghiaccio!
Una crepa enorme, è ovunque, ora che faccio?
Crack.
Senti il vuoto?
È sotto i tuoi piedi, blu per l'assideramento.
Madre natura ti spinge verso le gelide acque, che si chiuderanno intorno a te in un abbraccio eterno.
Padre tempo ti concede un ultimo dono, un'istante eterno, in cui tu alzi la testa e scruti il cielo.
La neve cade, rossa.
Ti svegli di soprassalto, urlando, ma subito ti calmi.
Senti qualcosa di familiare: il lento ma deciso tirare alle braccia della camicia di forza.
Sai anche che non dimenticherai mai quella chioma rossa, i pattini, il giorno in cui la tua mente ha perduto il dono in grado di crearli.